Con Nadia Perciabosco
Testo di Roberta Calandra
Regia Massimiliano Vado
Coordinamento Roberta Federica Serrao
Abito di scena Gattinoni
Spettacolo vincitore del bando L’Italia dei Visionari 2019
SINOSSI
Nella società dell’immagine il sogno di molti, contrariamente a ciò che si può pensare è scomparire. La nostra protagonista, la famosa attrice immaginaria Anita Marzo, ha fatto perdere le sue tracce e cinque personaggi, pirandellaniamente, si interrogano sulla sua fine. Morte, suicidio, capriccio, amore, insoddisfazione professionale, stanchezza, voglia di stupire o solo di normalità… la madre borghese, la sorella vagamente ottusa, la sedicente rivale in amore e palco, l’energia manager, la figlia smarrita e assetata di normalità compilano ipotesi senza risposta. Parlano al telefono, alle amiche, alla stampa, a se stesse. Ognuna una voce ma anche forse uno spicchio del complesso prisma mentale di Anita stessa che le anima come un burattinaio folle o fin troppo consapevole. Ebbra del suo spettacolo migliore e forse definitivo. Nanni Moretti si chiedeva se si venisse notati più o meno se si presenzia debitamente in società, fenomeni di eccellenza contemporanea come Bansky, Elena Ferrante o il seducente papa sorrentiniano. Sembrerebbero optare per la seconda ipotesi… ma la sparizione di Anita non ha risposta, incorniciata con essenzialità scenografica dai profili delle sue testimoni. Resta per noi importante che anche il pubblico si faccia una sua idea, tifando per le svariate risposte. Chi l’ha visto non è per caso un successo ininterrotto: tutti segretamente desiderano sparite a tratti ma ugualmente forse essere ritrovati. Tutti sono più o meno inconfessabilmente attratti da temi universali come l’espressione artistica, la depressione, il potere mediatico, il tradimento, la fatica di una vita originale e autentica e ai suoi prezzi possibili. Che la si ami o la si odi dunque Anita vuole conquistare ancora una volta e potrebbe riuscirci in pieno.
NOTE di REGIA di Massimiliano Vado
DICONO DI LEI, non è solo un testo teatrale, ma una collezione maniacale di informazioni, un museo teorico intitolato ad una attrice, una confessione di impotenza del genere umano, una contraddizione fitta come un gomitolo di corda che nessuno può riuscire a sciogliere. La sfida intellettuale di Roberta Calandra è di disegnare una persona senza mai farla vedere -e ovviamente senza mai sentirla parlare- affidando ogni confessione a chi le stava accanto, per vocazione, per legame familiare o anche solo per invidia professionale quanto umana. Se si scommette sul raccontare qualcosa incrociando lo stile pirandelliano della testimonianza sotto forma di monologo, ai più recenti format televisivi che parlano di persone scomparse, spezzando i ritmi dialettici e alternando le versioni discordanti, si deve per forza considerare che nella forma teatrale più assoluta tutto questo deve essere -obbligatoriamente- essere fatto dalla stessa attrice: la stessa persona che può essere la scomparsa del titolo di cui parlano tutte persone che hanno la sua stessa faccia, una attrice che rappresenta, non essendoci, tutto quello che conosce; una versione duplicata all’infinito di se stessa che racconta se stessa, senza perdersi. Anzi, riempiendosi di tutto e del contrario di tutto, piegandosi per velare i suoi difetti e lasciando irrisolta qualsiasi teoria che la riguarda, apparendo uno specchio di quel che si dice, un’antonomasia di se stessa che interpreta se stessa. La struttura portante di uno spettacolo di questo tipo, che non è un monologo soltanto, ne una sequela di monologhi discordanti, quanto piuttosto una serie di input irrisolti, frutto della continuità lessicale più che di quella temporale, è -potenzialmente- un museo dell’innocenza in cui vengono conservati e catalogati gli oggetti, gli umori, le locandine, i costumi, gli urli inascoltati, i vizi, le notizie, i pianti e i lasciti materiali di una sola persona.
Il gioco è semplice: si crea il mito e si fa di tutto per accreditarlo, lo si impone come realmente esistito, lo si deifica mentre lo si umanizza solo per renderlo credibile già all’inizio del percorso. Il resto è un gioco che non trova fine: forse l’attrice famosa di cui si parla ha scelto di sparire, forse non tornerà mai più o forse è sul punto di comparire a sorpresa, compiendo l’ennesimo episodio di cui parlare e sparlare. Un finale che non è scritto per un dipanarsi narrativo dai contorni non obbligatori, riassesta l’idea che ognuno di noi, se mai dovesse scegliere di accomiatarsi dal mondo, lascerebbe dietro di se una esposizione di infinità irrisolte, una proclamazione di esistenza e l’idea di se stampata nei cervelli di chiunque l’abbia incontrato. Cinque donne partecipano a questa deificazione contemporanea e, ciascuna a suo modo, rigettano, non senza limiti, la propria personale interpretazione della protagonista: dicono di lei per farci sapere di lei. ma tradendo se stesse, immergendo quel che razionalmente progettano di dire nella propria infelicità e nelle proprie passioni. l’ombra di quel che si pensa si proietta su quel che si pretende di dire, ci si tradisce, si torna indietro, si ipotizza, si sbanda, è naturale. è umano. Non ci si riduce ad affermare il luogo comune, chi se ne è andato non è sempre una brava persona; il “salutava sempre” neanche appare. siamo troppo coinvolti, troppo razionalmente intimi per lasciar andare la mente in modo consolatorio: si può sperare di scatenare guerre emotive anche nel momento dell’elaborazione del lutto. Si sprofonda in se stessi per raccontare altro e l’altro, i personaggi in scena incurvano se stessi schiacciati dal peso della propria sottomissione all’idea di qualcuno più potente di loro, che neanche c’è. Un dio inesistente per sdoganare una vita realmente vissuta quanto abusata. quel che facciamo nella vita, rimane, indelebile e non si può sperare di passare inosservati. Scritto da una donna, interpretato da una donna e prodotto da una donna, mi vede -unico uomo nel progetto- in minoranza; non me ne dispiaccio. Trovo che il lavoro di compensazione per arrivare ad una parità lavorativa anche nel settore dell’arte sia ancora lungo e mi pregio di esserne un tassello. Perché è necessario, anzi è vitale, che la sensibilità femminile sappia urlare la propria bellezza.
L’AUTRICE- Roberta Calandra
La dialettica tra essere e apparire è sempre stata il cuore del teatro, dunque, senza presumere di avere inventato nulla, ma anzi ricalcando grazie alle straordinarie doti di un’interprete siciliana come Nadia Perciabosco, i più celebri temi pirandelliani, “Dicono di lei” vuole raccontare una storia moderna. Potrebbe essere narrata su FB, come a “Chi l’ha visto”, il pretesto è semplice, anzi banale: una donna è scomparsa e varie persone si interrogano sulla sua possibile fine: sua madre, sua sorella, la sua agente, la sua rivale, sua figlia… Fuga d’amore, desiderio di suscitare una nuova curiosità professionale, suicidio, vacanza, romance, tutto è valido e tutto ugualmente privo di prove. La novità del testo è dovuta al fatto che la protagonista, una famose attrice contemporanea, non si vedrà mai, ma compariranno in scena solo le voci familiari che cercando, anche attraverso paradossali contraddittori, di decodificarla. Una donna calda e fredda, ironica e ottusa, depressa e iper attiva, una donna sicuramente di grande fascino e insicura percezione di sé, che ci ricorda l’immensa fatica di essere se stessi in una società sempre meno privata e insieme, l’irrefrenabile bisogno di piacere per esistere, una donna che, malgrado sia così speciale, assomiglia terribilmente ad ognuno di noi.
Be Unhappy perché… è bello sparire aspettando di essere ritrovati.
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